[APARTE] Convivium /spazio1 Magna Carta /spazio2

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Dal 24 settembre 2020 due mostre temporanee si affiancano alla apertura del PART Palazzi dell’Arte di Rimini (piazza Cavour)

[APARTE]

Convivium/spazio1  Francesco Bocchini / Vittorio D’Augusta / Luca Giovagnoli / Marco Neri / Nicola Samorì

Magna Carta /spazio2   Denis Riva

A partire dal 24 settembre 2020 due mostre temporanee si affiancano alla apertura del Part, Palazzi dell’Arte, a Rimini, nella centralissima piazza Cavour, il nuovo sito museale che riunisce in un progetto unitario la riqualificazione a fini culturali degli storici Palazzi dell'Arengo e del Podestà, al cui interno è esposta la collezione d’arte contemporanea della Fondazione San Patrignano, formatasi negli anni per le donazioni di artisti, collezionisti e galleristi.

Le due mostre, rispettivamente dislocate nello spazio1 del Palazzo del Podestà e nello spazio2 sotto una sigla denominata [APARTE] sono Convivium, con i lavori di Francesco Bocchini, Vittorio D’Augusta, Luca Giovagnoli, Marco Neri, Nicola Samorì e Magna Carta con le opere recenti di Denis Riva, mostra quest'ultima a cura di Massimo Pulini.

Nella mostra Convivium cinque artisti dalle personalità dirompenti, per vie diverse e insieme complementari, si confrontano con la propria esperienza e linguaggio, in un intreccio di identità e di narrazioni, spalancando mondi interiori, muovendo energie centripete.

Bocchini, D'Augusta, Giovagnoli, Neri, Samorì si misurano con l'impasto di memoria e percezione, con il corpo e la materia della pittura, gradienti silenti che esplodono a breve distanza, tra l’una e l’altra opera, presenti in grandi dimensioni, fornendo una miscela per riflessioni, processi percettivi e simbolici, stimoli emozionali. Espressione di una situazione fluida come quella attuale, la mostra vede le individualità di ognuno allacciarsi e rimandare al sistema frammentato e instabile dell'arte oggi, ma offre anche occasione per comprendere le spinte creatrici che originano il rispettivo operare. Si configurano rimandi e corrispondenze tra i poli dall’accento figurale e quelli dell’astrazione. Tutti gli artisti, a vario titolo, hanno un legame profondo con la città di Rimini; un heritage legato alle loro partecipazioni a mostre svolte negli anni passati o per averne costruito una immagine seduttiva in campagne grafiche promozionali, come comunicatori visivi.

L'esposizione è curata da Annamaria Bernucci e Piero Delucca
 
C o n v i v i um
di Annamaria Bernucci

Convivium, deriva da convivĕre «vivere insieme», allude a un incontro composito, a un simposio umano e d’arte ed è quello che va cercato tra le pieghe di questa mostra. Una occasione di prossimità, di relazioni. Coniuga presenze che per approcci e generazioni avrebbero maturato distanze e relatività, ma che, al contrario, sono in grado invece di innescare un avvincente rapporto di vicinanza e di esclusività in chi osserva. Una relazione fluida, seppur parziale per presenze e opere, si trasforma in convivenza che contiene un presagio di irripetibilità, risuona di note legate al passato e annuncia una promessa di futuro. Piace pensare che l'arco dell'orizzonte si distenda in avanti, non cerchi crepuscolo. Ciò appare positivo, specialmente nel tempo attuale nel quale si sta continuamente profetizzando il cabotaggio dei rischi e delle paure collettive, mentre le mete si fanno sempre più provvisorie. É anche il tempo, questo, in cui l'arte soggiace a nozioni come discontinuità e fluidità, complessità e contraddizione, ma diviene capace di resilienza, cioè di adattarsi al reale, di annetterlo e integrarlo. Nella indefinitezza risiede la particolarità costitutiva del contemporaneo e il cercare mediazioni e letture partecipate e fruizioni può trasformare la percezione in una interpretazione attiva.

«Il tempo è obliterato da un eterno presente. Presente indicativo» (J.Berger)

Cinque artisti dalle personalità estremamente diverse si confrontano con il proprio vissuto e con il presente, confidando in un intreccio di identità e di narrazioni, un spalancare mondi interiori e un muovere energie centripete. Un flusso di esistenza. Lo è per Bocchini, D'Augusta, Giovagnoli, Neri, Samorì. Si misurano con il corpo e la materia, con quell'impasto di memoria e percezione, gradienti silenti che esplodono a breve distanza, tra l’una e l’altra opera, fornendo una miscela per riflessioni, processi percettivi e simbolici, stimoli emozionali, pretesti di lavoro, dove è la mano che crea. Si configurano rimandi e corrispondenze tra i poli dall’accento figurale e quelli dell’astrazione. Tutti, a vario titolo, hanno un legame profondo con la città di Rimini: per averne costruito una immagine subliminale e seduttiva in campagne grafiche promozionali, trasformandosi in aedi della comunicazione visiva; per aver partecipato a mostre monografiche foriere di esiti importanti; per aver ricevuto, qui, accoglienza e approdo, quando il caso e la storia spinge un esule a perdere una riva a favore di un'altra, trasformando poi - da pittore - la tragedia personale in una danza di colori sulla carta o sulla tela.

La natura si è rinvigorita in questi mesi di sospensione con la temporanea ritirata dell'uomo e il suo strascico inquinante, quasi a festeggiare il nostro fermarci. E questo imporrebbe una riflessione. L'intrico metallico di Francesco Bocchini è la proiezione di una natura che si fa vertigine proliferante, ma anche ibrido che ha modificato il suo etimo e la sua essenza da naturale in artificiale, si è fatta diversamente tattile. Nella combinazione di leggerezza e gravità metallica risiede l'opera, una infiorescenza in lamiera di ferro stagnata, imponente e luminosa, che si dilata, quasi sensuale, e si compone nello spazio, su un piano. Anche il titolo, come un azzardo - Crocefissione Grunewald - partecipa al suo stato misterioso e provocatorio, forse fornendo  un monito o un invito ad ascoltare nuovamente la voce della natura e a vivere silenzi e lentezza come un ordito capace di riconciliarci con lei.

Per Vittorio D'Augusta la virtualità della pittura sostituisce la realtà, un modo per preservare le cose risucchiate dal passato e mai rimosse, difendendole dal naufragio della dimenticanza.  Lo è stato per l'esodo e la guerra vissuti da bambino che affiorano ancora nei progetti di pittura, tra cui l'ultimo An dan dess, cui affida il piacere del gesto pittorico, costruendo e sollecitando i suoi ossimori e le sue contraddizioni, la pace e la guerra, il seme che germoglia e le bombe che distruggono. Lo è per il memorandum da lui ideato per l'11 settembre 2001, e il pittore, come il poeta, si pone davanti alla tragedia delle torri gemelle newyorchesi compiendo lo stesso miracolo di conservarne, esattamente come i documenti fotografici, la memoria. Parcellizza il racconto in una scansione a episodi, incalzanti di gestualità e digressioni, dà loro ritmo, immaginando senza rappresentare, con un pennello flessuoso e lirico, il crollo, il vuoto, l'orrore vissuto, così come la poetessa Wistawa Szymborska era stata capace di riassumere

… Solo due cose posso fare per loro
descrivere quel volo
e non aggiungere l’ultima frase.

 
Luca Giovagnoli oppone la storia al presente congelando l'istante. In una rivisitazione di volti e individui e pose, come se il tempo non trascorresse. Sono fugaci apparizioni, un vagare nei territori dell'immaginazione, nei ricami del vissuto quotidiano, tra un immaginario tinto di erotismo e ritratti cui si cancella parte del volto. Sono tradotti in una pittura in squillanti campiture dal colore disteso, dalla traccia morbida, a volte ibridata di materie grezze, come sabbia. Eppure sottotraccia la nostalgia del presente raggela le immagini: uno scippo alla pienezza del tempo in atto, come il non vivere abbastanza il presente e aver paura di non afferrarlo a sufficienza. Del resto anche la fotografia è una forma tecnologica di nostalgia del presente, anche il vintage è una forma di nostalgia per trattenere gli oggetti collezionandoli. C'è una corrispondenza tra il vivere un'esperienza e prefigurare la sua sparizione, avvertire il presagio della mancanza. In fondo è questo che Giovagnoli insiste a raccontare.

L'universo di Marco Neri è disciplinato e silenzioso. Il dipingere diviene un atto di massima astrazione che restituisce il dato visivo del reale. L'attesa che genera non è un vuoto o una vertigine, ma un apprendistato a vivere, rappresenta l'indice e l'espressione enigmatica di quello stesso reale, ma iconizzato. Questo si percepisce nei suoi paesaggi urbani, cantieri, piattaforme, prospetti architettonici, dove tutti gli elementi strutturali sono ridotti a sintesi in un processo di riduzione cromatica e formale. Anche in La casa delle bandiere, l'immagine balneare 2013 per Rimini, città per lui d'adozione sino a pochi anni fa, nella soluzione limpida e colorata e in quello che è stato definito il 'gran pavese' di bandiere, svela la specularità di questa semplificazione. Del 2007 è la tempera su carta Magna Charta, traguardo astratto simbolico assieme al composito Omissis (serie dedicata alle identità personali e alla loro negazione e censura) che denuncia la relazione tra i linguaggi, quello verbale, sempre più impoverito e quello visuale-grafico che domina il sistema iconocentrico attuale, a scapito delle relazioni, delle capacità logico-deduttive e della comprensione dei testi.

Forse per Nicola Samorì il farsi di una immagine comincia proprio interrogando le apparenze per raggiungere, al di là della superficie, esiti di profondità. Con lui s'innesta il dialogo tra l'antico e il presente in un primato esaltato e mai interrotto compiuto nella rigenerazione della pittura, letta e vista come il termine di paragone in cui si confronta ogni pensiero. Anni di anemia pittorica in favore di altre forme d'arte non hanno incrinato il suo desiderio di agire sul corpo della pittura (e della scultura) specie quella barocca. Un instancabile lavorìo, un frugare dentro la materia, torturarla, persino. Uno scavo, un' abrasione sul corpo dentro il corpo: la distinzione tra homo interior (lo spirito) e homo exterior (la carne) ha una tradizione antica. La ferita e lo svisceramento evocano una osmosi tra le due aree, un ambito di incertezza tra umano e inumano, tra angelico e animale. Sono corpi in dissoluzione, corpi barocchi che reclamano il Memento mori, dalla sensualità estenuata, la stessa che investe gli oggetti della realtà, gli 'oggetti di ferma', composti nelle nature morte. Il demone dell'analogia li unisce senza distinzione. Caino e  la Natura morta (La negazione di Marte) qui presenti, possiedono -  scrive Samorì - «una parentela ottica, e in entrambi i casi si intuisce una perdita di vita-vitalità attraverso l'irruzione di un gesto che resta ben leggibile sulla superficie: in un caso i petali scheggiati, nell'altro il corpo scorticato».

Magna Carta /spazio2
Denis Riva a cura di Massimo Pulini

 

Denis Riva detto Deriva (1979), nato in un luogo che gli piace definire «il Ganzamonio»,  vive e lavora a Follina, in provincia di Treviso, ed è disegnatore, pittore, raccoglitore, osservatore, assemblatore, ricercatore, installatore, sperimentatore, non attore. Non partecipa a premi. Non si è diplomato all’accademia di belle arti di. Vive sotto il peso terribile dell’arte che trasporta quotidianamente con sé. Nessun Master, anche se utilizza spesso la parola Maztèr. Non è docente all’università. Frequenta continuamente due cani. Nonostante la moltitudine di lavori fatti in questi ultimi anni è convinto di essere appena all’inizio della propria ricerca ma comprende che potrebbe anche essere alla fine.        
Nel 2017 ha compiuto vent’anni di mostre. Con queste note biografiche si presenta un formidabile artista che esporrà a Rimini al Palazzo del Podestà in una mostra dal titolo Magna Carta a cura di Massimo Pulini. Alle grandi carte disegnate e dipinte, espressione di una versatilità libera da lacci e aperta all'indagine su temi del mondo animale e paesaggistico,  proiezioni fantasmagoriche di mondi favolistici, si è avvicinato a Denis Riva  Massimo Pulini, dandone una lettura al solito puntuale e poetica.

«Guardando le grandi carte dipinte si percepisce un’intensa ricerca sperimentale che a un certo punto del proprio percorso ha deciso di aprirsi alla favola, senza preoccuparsi del rischio di genere. Anche qui sembra essersi stipulato un armistizio, una Magna Charta Libertatum scritta a memoria di un universale diritto creativo.
Le migliori prossimità che ho potuto rilevare tra il titolo della mostra e le opere di Denis Riva sono racchiuse in questo perimetro di senso, nell’accordo tra i tre regni naturali e nel terreno sopra il quale vengono dispiegate le storie».

«...Avverto anche nelle carte di Denis Riva il dispiegarsi di una cosmogonia dal sapore letterario – scrive ancora Massimo Pulini nel saggio introduttivo – e continua: «Da molti decenni si è trovata in una posizione di esilio la millenaria relazione tra pittura e narrazione, al punto che l’urgenza di raccontare storie in immagini è sopravvissuta ai vari diluvi dell’arte novecentesca, recintandosi in una riserva indiana, nello storico legame col libro. Sin dal medioevo l’atto di narrare e quello di mostrare hanno trovato dimora nella stessa pergamena, nei codici e nei corali, e quella carta di pelle animale, come fosse un altro patto di sangue, intrecciava pittura, scrittura e musica. Pure certe opere esposte, specie tra quelle eseguite per montaggio e ritagli, assomigliano a un antico cabreo, a quella cartapecora che trasformava i terreni in disegni, che ne classificava la coltivazione o ne registrava la condizione boschiva. Nel maneggiare oggi il termine illustratore, entro un testo critico di arte contemporanea, si va incontro al malinteso, equivale quasi a iscrivere le opere e l’autore in una posizione accessoria, ma si è smarrito il senso della parola illustrare, che in origine indicava un atto portatore di luce, quell’illuminazione che apre squarci all’immaginario». (Massimo Pulini)

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info: 0541 793879
e-mail part@comune.rimini.it

Le mostre sono visitabili con il biglietto d’ingresso al PART Palazzi dell’Arte Rimini

Rimini · Palazzo del Podestà · Piazza Cavour·
24 settembre 2020 – 10 gennaio 2021

Luca Giovagnoli
Francesco Bocchini Crocefissione
Marco Neri
Nicola Samorì
Vittorio D'Augusta